Sintesi Storica


Le basi e l’evoluzione storica del territorio Tirolese-trentino/Welschtirol

Già con l’età del Bronzo, dal XII secolo a.C., le aree corrispondenti alle attuali regioni del Trentino/Südtirol, del Tirolo orientale (Ost-Tirol) e della Bassa Engadina, si pensa fossero caratterizzate da una cultura autonoma, consolidatasi durante l’età del Ferro (V secolo - I secolo a.C.)

In seguito alla caduta dell’Impero Romano ed alle invasioni barbariche, il territorio corrispondente all’attuale provincia di Trento cominciò ad assumere un’autonomia politico/amministrativa. Ciò avvenne in concomitanza con il dominio longobardo, durante il quale il territorio corrispondente all’episcopato di Trento, a poco a poco, si costituì come ducato indipendente (perdendo quel vincolo amministrativo con i territori corrispondenti alla regione Venetia et Histria di romana memoria). Il duca longobardo, tuttavia, fu gradualmente soppiantato nella propria funzione dal vescovo di Trento che ne assorbì i poteri. Il primo vescovo ad essere investito di potere politico fu Manasse nel 933 d.C.

La nascita del Principato vescovile di Trento, dunque, è preceduta da una progressiva concentrazione dei poteri politico-amministrativi nelle mani del vescovo e la causa di tale trasferimento di potere può essere individuata in due motivazioni principali:

-la crisi dei poteri regi nella penisola italica;

-il conseguente passaggio del territorio del ducato di Trento nel 951 all’impero Romano-Germanico e, precisamente, al ducato di Carantania.

Tuttavia l’istituzione di una vera e propria autonomia può dirsi propriamente compiuta solo con l’atto di investitura del vescovo di Trento della sovranità di principe del Sacro Romano Impero da parte di Enrico II nel 1004 (azione di cui manca il relativo diploma) e successivamente nel 1027 da parte di Corrado II il Salico (con relativo diploma). Da questo momento il Principe vescovo venne nominato direttamente dall’imperatore, godendo quindi anche di seggio e voto nella Dieta dell’Impero.

Tuttavia già dalla metà del Trecento il territorio governato dal vescovo andò frammentandosi a causa del passaggio di alcune sue parti ai possedimenti dei Conti del Tirolo ed a causa della vicinanza degli Stati italiani, quali il ducato di Milano prima e soprattutto la Repubblica di Venezia poi. In particolare fu proprio la Serenissima che per circa cento anni (dal 1411 al 1509) occupò la Vallagarina (Rovereto compresa) e Riva del Garda.

Nonostante ciò questo territorio composito a cavallo delle Alpi poté godere di una forma di unità in quella che venne definita come Confoederation tirolensis. Essa fu preceduta da vari trattati, fra i quali spiccano le celebri “compattate”, ovvero leggi che regolavano i rapporti economici e militari te la Contea del Tirolo e i Principati vescovili di Trento e Bressanone. In sostanza queste tre entità vennero vincolate da comuni accordi i quali portarono ad un’uniformità politico-amministrativa che purtuttavia permetteva il mantenimento di autonomie locali fra i tre organismi sopracitati. Valutando il contenuto di questa convenzione si può notare facilmente come tali accordi siano stati assunti in maniera similare dagli Stati moderni uniti nel Mercato Europeo Comune e nell’ONU.

La storia del Principato vescovile si susseguì sotto la guida dei principi vescovi fino al 1801, quando venne secolarizzato da Napoleone. Nel 1815, dopo il turbinio delle guerre Napoleoniche il Principato vescovile entrò a far parte integralmente della contea del Tirolo, entro i confini della Confederazione germanica e dell’Impero Asburgico fino al 1918. In seguito alla 1^ Guerra Mondiale passerà al Regno d’Italia e nonostante ciò il vescovo di Trento manterrà il titolo di Principe fino agli anni Sessanta del Novecento.

Questo territorio, proprio perché governato da un’autorità che incarnava sia il potere spirituale che il potere secolare, si trovò nelle condizioni di doversi confrontare con un Advocatus. Quest’ultimo costituiva un’autorità amministrativa che faceva da tramite tra l’imperatore ed il Principe vescovo. L’avvocato per ampliare il proprio potere cercò alleanze, in funzione antivescovile, con le città, la nobiltà o i contadini, favorendo l’istituzione di autonomie e privilegi che vennero difesi strenuamente anche nei confronti dello Stato moderno (che nacque con l’imperatrice Maria Teresa)

L'immagine qui sopra indica l'estensione del Principato vescovile di Trento fra i secoli XI e XIII e confronto con l’attuale regione Trentino/Südtirol

Il Principato vescovile tra l’XI e il XIII secolo comprendeva i territori dell’attuale provincia di Trento (all’infuori della val di Fassa, del Primiero e della Valsugana a oriente di Novaledo). I suoi confini si estendevano fino oltre Levico a est (comprendendo le pievi di Pergine e Calceranica appartenenti alla diocesi di Feltre), fino a Tèll di Merano a nord e in val Venosta fino a Puntota in Engadina (diocesi di Coira) a nord-ovest. Facevano poi parte del Principato anche le pievi di Avio e Brentonico (appartenenti alla diocesi di Verona). Il resto dei territori del Principato corrispondeva ai confini della Diocesi.


Fino al 1703

Dal Landlibell alle guerre di Successione (1511-1703)

Il 24 giugno 1511 Massimiliano I d’Asburgo, nella duplice veste di imperatore e conte del Tirolo, stipulò ad Innsbruck con i principi vescovi di Trento e Bressanone il Landlibell, un patto di confederazione che legava i due principati vescovili con la contea del Tirolo, al fine di garantire la difesa dell’intero territorio. In caso di aggressione della regione tirolese da parte di un esercito nemico, i tre firmatari dovevano infatti contribuire ciascuno con una quota di uomini, per garantire la costituzione di un contingente di armati che poteva variare da 1.000 fino a un massimo di 20.000 uomini a seconda della gravità della crisi.

Il Landlibell sanciva, quindi, la nascita di una milizia volontaria locale che, senza ordini di classe o di età, avrebbe provveduto alla difesa della regione: gli Schützen. Questa milizia non era tenuta a prestare servizio oltre i propri confini: il suo impiego consisteva unicamente nel carattere difensivo. Da questo patto di confederazione sarebbe derivato quel sentimento di autodifesa del proprio territorio che rimase immutato nei tirolesi fino al Primo conflitto mondiale.

I presupposti che portarono alla stipula del Landlibell furono molteplici: soltanto due anni prima Rovereto e la Vallagarina erano ritornate a Massimiliano e al principe vescovo di Trento, dopo quasi un secolo di dominazione veneziana. La pace di Bruxelles del 1516 sancì la fine delle ostilità tra l’Impero e la Serenissima. Venezia riacquisì Verona, rinunciando definitivamente a Riva, alla Vallagarina e cedendo i territori dell’Ampezzano.

Il “Libello dell’Undici”, così veniva anche chiamato, rimase in vigore per lungo tempo, senza subire particolare modifiche; le più significative sono forse quelle introdotte nel 1605 dall’arciduca Massimiliano III. Il suo Ordinamento di leva disponeva il numero di armati da reclutare per ciascun distretto per i tre contingenti di 10.000, 15.000 e 20.000 uomini totali, oltre all’obbligo per ogni Comune di destinare un luogo dove tenere le esercitazioni per gli iscritti alle varie compagnie di Schützen, il Bersaglio.

In caso di invasione del Tirolo da qualunque punto cardinale, un sistema a catena di fuochi (Kreiden Feuer) posti su alture ben visibili, trasmetteva il segnale di allarme di valle in valle, allertando così tutta la popolazione della regione. Nei singoli paesi, la chiamata alle armi dei bersaglieri volontari veniva effettuata con il suono delle campane a martello.

I rapporti tra l’Impero e la Repubblica di Venezia tornarono ad inasprirsi nel 1614, causa l’appoggio dato alle bande di pirati slavi che ostacolavano nell’Adriatico il traffico marittimo della Serenissima. A queste provocazioni la Repubblica di Venezia rispose invadendo il territorio di Gorizia. Il conflitto si risolse tre anni dopo nella pace di Madrid, con la quale Venezia restituì i territori occupati e l’Impero tolse la protezione ai pirati slavi. La crisi promosse lungo i confini tirolesi un’ispezione alle fortezze, non più al passo coi tempi. Il resoconto dell’ispezione fu riportato nel Codice Enipontano III, contenente 56 fogli con 34 disegni che rappresentavano i principali castelli e i paesaggi delle valli tirolesi, dalle quali poteva avvenire un’incursione dell’esercito della Serenissima. All’epoca le vie di comunicazione, e dunque di penetrazione di forze nemiche, erano piuttosto rare e, in molti luoghi, la stessa natura del territorio bastava ad impedire l’invasione di un esercito.

Solo sul finire del XVII secolo le crisi politiche tra le potenze d’Europa tornarono a lambire i confini tirolesi. La morte di Carlo II re di Spagna, spentosi senza lasciare un diretto erede, fece scoppiare nel 1700-01 le guerre di successione a quel trono. Le armate gallo-ispane occuparono nei primi mesi del 1701 il ducato di Milano, entrarono nel territorio della Repubblica di Venezia e, disponendosi alla chiusa dell’Adige a nord di Verona, attesero la reazione dell’esercito imperiale, convinte di impedire qualsiasi sua iniziativa.

Il principe Eugenio di Savoia, comandante dell’esercito imperiale, raggiunse la Vallagarina il 19 maggio con un corpo di 32.000 uomini e con grande intuito strategia aggirò la chiusa dell’Adige controllata dal nemico, facendo passare le sue truppe dalla Borcola e dai Lessini. Raggiunte le pianure venete, i gallo-ispanici furono presi da dietro e sul fianco, sconfitti e costretti a ritirarsi in Lombardia.

Tuttavia, ricevuti cospicui rinforzi e posti al comando del duca di Vendôme, essi nel 1703 ripartirono all’offensiva.

La manovra dei gallo-ispanici doveva procedere su due fronti: a nord, l’elettore di Baviera Massimiliano Emanuele, alleato dei francesi, era entrato con il suo esercito forte di 15.000 uomini nella valle dell’Inn, prendendo Kufstein, Rattenberg, Hall, Innsbruck; di lì l’armata si era divisa con l’intenzione di ricongiungersi a Bolzano, percorrendo con una colonna il passo di Resia e la val Venosta, e con l’altra il passo del Brennero e la valle dell’Isarco.

A sud Vendôme con 20.000 uomini, si accingeva ad entrare nella regione con tre colonne, una dalle Giudicarie (che fu bloccata dai bersaglieri locali e della Valsugana), l’altra dalla valle di Ledro e la terza dal monte Baldo, condotta dallo stesso Vendôme (quest’ultima ostacolata presso Bocca di Navene da un numero ridotto di truppe imperiali e bersaglieri tirolesi).

Vendôme proseguì la sua marcia, devastando campagne, distruggendo castelli e incendiando i paesi che trovava lungo il suo cammino, e questo per rappresaglia nei confronti dello stillicidio continuo dei suoi uomini condotto dai bersaglieri tirolesi. Alla vista di Isera in fiamme, i roveretani sulla sponda opposta dell’Adige, barriera naturale che li separava dall’invasore, si votarono a Maria Hilf (Maria Ausiliatrice) per scongiurare la rovina della loro città da parte dei francesi. Era il 5 agosto e da allora Rovereto osserva in tale data il proprio voto di devozione.

Vendôme, valutato l’attraversamento dell’Adige eccessivamente rischioso, si diresse nella valle del Sarca, intenzionato a raggiungere il prima possibile Trento, luogo dove sperava di congiungersi con le armate bavaresi. Gli invasori incendiarono castel Penede, ma trovarono nell’assedio del castello di Arco un ostacolo più duro del previsto, che li tenne impegnati fino alla seconda metà di agosto.

Vendôme raggiunse Cadine il 7 settembre e, piazzate le artiglierie sul colle Verruca (oggi Doss Trento), cominciò il bombardamento di Trento, ma ormai il conflitto avevo preso un piega decisamente avversa ai gallo-ispanici. Nel nord del Tirolo, i bavaresi erano stati fermati dai tirolesi sia al Brennero che a Landeck e costretti a tornare sui loro passi. In Italia, invece, il duca di Savoia Vittorio Amedeo era passato dalla parte degli austriaci, e per l’armata gallo-ispana attraversare il Piemonte per rientrare in patria poteva diventare ora un serio problema.

Cominciò così la ritirata lungo la valle del Sarca: Vendôme raggiunse le sponde del Benaco il 28 settembre e si imbarcò per l’Italia: «Finalmente quell’armata [raccontava lo storico de Zandonati] dopo aver perduti circa 15.000 uomini fra Arco e Trento, entro il periodo di appena due mesi, senza che fosse seguito il menomo fatto d’armi, ma uccisi dai soli cacciatori e contadini del paese dovette retrocedere in Italia».


Le armate di Napoleone invadono il Tirolo (1796-1805)

Sul finire del Settecento le guerre tra le potenze d’Europa tornarono a interessare direttamente la regione tirolese.

Nel 1796 scoppiò la prima guerra di coalizione anti-francese, combattuta principalmente a nord delle Alpi, ma con un secondario fronte di guerra che i francesi affidarono al giovane generale Napoleone Bonaparte. Nella Campagna d’Italia, Napoleone dimostrò straordinaria audacia e capacità tattica, sconfiggendo a Lodi, il 15 maggio, l’armata austriaca e costringendola a ritirarsi, parte nella fortezza di Mantova (poi assediata) e parte in Tirolo.

Proprio il ritiro dell’armata imperiale offrì agli abitanti della Vallagarina il desolante e drammatico quadro della situazione; le deputazioni di difesa di Bolzano e Innsbruck si attivarono per la protezione dei confini regionali. Fu proibita l’esportazione dalla regione di generi alimentari, fu predisposta la raccolta di fieno e biada, nonché delle armi funzionanti servibili, furono sollecitate le singole comunità ad organizzare le compagnie degli Schützen.

I mesi estivi trascorsero relativamente tranquilli, con qualche isolato scontro a fuoco lungo i confini giudicariesi e anche fuori dagli stessi - contrariamente alle direttive impartite dalla Deputazione di Difesa territoriale - e sul monte Baldo (battaglia del Cerviolo), mentre l’esercito imperiale, al cui comando subentrò l’anziano generale Würmser, si stava riorganizzando nel Trentino, con la costituzione di un corpo d’armata, stimato in 80.000 uomini, che gravava enormemente sulle risorse della popolazione e del territorio.

Würmser commise l’errore di dividere le proprie truppe in più colonne, troppo distanti tra loro per potersi appoggiare l’una con l’altra, mentre Napoleone avanzò a forze compatte tra la valle del Chiese e quella dell’Adige, dove il 3 settembre giunse ad Ala.

Schützen tirolesi e soldati dell’esercito imperiale ebbero la peggio davanti a forze nettamente superiori che avanzarono velocemente nella Vallagarina. La mattina del 5 settembre Napoleone entrò a Trento e, dopo aver osservato dal campanile di Gardolo la collocazione degli imperiali, partì lungo la Valsugana all’inseguimento di Würmser, lasciando il generale Vaubois a custodia del Trentino.

L’11 settembre, presso il ponte di San Lorenzo a Trento, vennero fucilati quattro bersaglieri del Tirolo italiano. Erano Giovanni Galvagni di Pieve di Bono, Nicolò Orion di Lavis, Battista Marinelli di Vervò e Angelo Silvestri della valle di Ledro. L’esecuzione fu condotta a titolo dimostrativo al fine di intimare la popolazione a non impugnare le armi. Napoleone aveva emanato pochi giorni prima un proclama, per invitare la popolazione locale a rimanere tranquilla nelle proprie case e a non opporsi all’avanzata delle milizie francesi. I francesi ignoravano tuttavia il Landlibell e i doveri che impegnavano i tirolesi nella difesa della propria regione. Dopo quell’episodio, gli Schützen cominciarono a portare sui loro cappelli una coccarda di colore bianco-verde oppure bianco-rosso (i colori del Tirolo) o infine giallo-nera, affinché venissero trattati come una milizia a tutti gli effetti.

L’occupazione del Tirolo meridionale da parte dei francesi perdurò, con grandi privazioni per le comunità locali, fino all’inizio di novembre, quando gli Schützen e l’esercito imperiale ripresero l’offensiva (battaglie di Segonzano e di Calliano), scacciando il nemico dalla regione.

L’esercito asburgico commise un secondo errore, rinunciando a inseguire i francesi in ritirata. Questi ultimi poterono così riprendere l’iniziativa, infliggendo agli austriaci una pesante sconfitta a Rivoli (16 gennaio 1797) e tornando a invadere la regione. I francesi si attestarono sulle posizioni raggiunte pochi mesi prima e sulla popolazione infierì pure un’epidemia di tifo.

Il 20 marzo 1797 essi passarono all’offensiva su tutta la linea dell’Avisio e, dopo aver avuto la meglio sulla resistenza dei tirolesi, avanzarono verso nord. La colonna francese, guidata dal generale Joubert, si scontrò pesantemente a Spinges con la resistenza dei tirolesi e, anziché proseguire verso il Brennero, imboccò la Val Pusteria, ricongiungendosi con il grosso dell’esercito francese a Villach.

A custodia del Tirolo meridionale era rimasto un corpo di truppe guidate dal generale Serviez, che dovette fare i conti con la controffensiva austriaca. Il generale Laudon, scendendo dalla val Venosta verso Bolzano, e il capitano dello stato maggiore conte Neipperg, con pochi cavalleggeri e dragoni, cacciarono nuovamente i francesi, entrando a Trento il 10 aprile 1797 e sette giorni dopo furono a Verona dove fu siglata la tregua d’armi.

Le ostilità con la Francia ripresero nel 1799, con una coalizione austro-russa intenta a riconquistare i territori italiani perduti e con Napoleone impegnato nella campagna d’Egitto. Al suo ritorno Bonaparte divenne primo Console di Francia e ripartì con una nuova guerra in Italia. Il 14 giugno 1800 sconfisse pesantemente le armate austriache a Marengo, riprendendosi ciò che aveva conquistato negli anni precedenti.

Nel Tirolo gli effetti si videro all’inizio del 1801, con i francesi che varcarono i confini della regione dalla Vallagarina, dalla Valsugana e dalle Giudicarie (generale Macdonald). Il 7 gennaio essi entrarono a Trento. Con la successiva pace di Luneville vennero secolarizzati tutti i principati ecclesiastici dell’Impero.

Nel 1805 riesplosero le ostilità tra Napoleone e l’Austria, che aveva aderito alla terza coalizione con Inghilterra, Prussia e Russia. La sconfitta inflitta all’esercito asburgico a Ulm in Svevia implicò il ritiro delle truppe imperiali dal Tirolo, che fu invaso velocemente dai francesi. Infine, la pesante sconfitta di Austerlitz del 2 dicembre, costrinse l’Austria alla pace di Presburgo (26 dicembre 1805), le cui condizioni imposero la cessione del Tirolo e del Vorarlberg al Regno di Baviera.


L’Anno Nove

Preso possesso del Tirolo nel gennaio 1806, il re di Baviera Massimiliano Giuseppe I, come previsto dalle condizioni del trattato di pace, si assunse l’impegno di amministrarlo alle stesse condizioni con le quali lo avevano governato per lungo tempo gli Asburgo. Le cose tuttavia andarono assai diversamente da quanto dichiarato.

In tre anni la regione fu interessata da una serie frenetica di innovazioni legislative, alcune delle quali tese a sconvolgere, per il loro carattere anticlericale, le più sentite abitudini delle comunità.

Venne soppresso il nome di Tirolo, sostituito dalla dizione Provincia del Sud Baviera, suddivisa nei circoli dell’Inn, dell’Isarco e dell’Adige. Ultima disposizione legislativa dei bavaresi fu l’introduzione della coscrizione obbligatoria all’inizio del 1809. Ciò promosse, sulla popolazione ormai esasperata, la sollevazione popolare. A Predazzo in val di Fiemme, vi fu un’accesa rivolta, passata alla storia come uno dei primi episodi dell’insurrezione tirolese dell’Anno Nove.

L’Austria, sin dalla fine del 1808, aveva stretto con l’Inghilterra la quinta coalizione antifrancese e si stava preparando ad entrare in guerra contro Napoleone, le cui truppe erano impegnate a sedare la tenace insurrezione popolare spagnola.

Conscio dello scontento tirolese, il governo austriaco mirava a condurre la nuova guerra alla Francia in territorio bavarese e al contempo, attraverso un’insurrezione nella regione alpina, si voleva assicurare la chiusura del corridoio tirolese, limitando la mobilitazione delle truppe nemiche impegnate in un fronte secondario. L’attitudine dei tirolesi alla difesa territoriale, applicata già da tre secoli, avrebbe consentito l’utilizzo di un numero assai limitato di uomini dell’esercito regolare austriaco, garantendo un certo margine di sicurezza all’operazione.

A Vienna, dove vivevano parecchi fuoriusciti dal Tirolo dopo la sua cessione alla Baviera, si intrapresero i contatti tra il governo austriaco e i possibili capi dell’insurrezione popolare. Tra questi vi era Andreas Hofer della Passiria, oste e profondo conoscitore del territorio, che già aveva ricoperto un ruolo pubblico come rappresentante della categoria contadina. Hofer era apprezzato dalla popolazione e, grazie ai suoi trascorsi nel Tirolo italiano, a Cles e a Ballino, era bilingue e stimato anche in quelle vallate.

La prima fase dell’insurrezione popolare procedette come programmato dai capi della rivolta: tra l’8 e il 9 aprile l’esercito regolare austriaco entrò in Tirolo dalla Pusteria, appoggiato dalla popolazione locale che, paese dopo paese, insorse contro i bavaresi. Negli stessi giorni vi furono rivolte anche a Innsbruck e nella valle dell’Inn.

Vista la critica situazione, i francesi da sud inviarono un contingente di truppe a Trento, che il 21 aprile si scontrarono a Gardolo con i soldati austriaci e gli insorti tirolesi. Il giorno dopo Andreas Hofer entrò a Trento, a capo di circa 20.000 insorti armati. Fu proprio l’Hofer a calmare gli animi accesi dei contadini nonesi e fiemmesi che volevano porre a sacco la città, che più volte aveva espresso una marcata approvazione delle disposizioni del bavaro governo.

I francesi, riorganizzatisi presso Volano, sostennero il 24 aprile un’accesa battaglia, al termine della quale dovettero disporsi in ritirata e abbandonare la regione.

Nel mese di maggio essi effettuarono due incursioni nel Tirolo meridionale, senza tuttavia ritornare in possesso del territorio, mentre i bavaresi, calati nella valle dell’Inn, ripresero Innsbruck, riperdendola il 25 del mese con la seconda battaglia del Bergisel. Fu quello scontro che fece di Hofer il grande condottiero dei sollevati tirolesi, ma la guerra tra le potenze europee fu decisa fuori dalla regione, nelle pianure intorno a Vienna dove, dopo esiti altalenanti, l’esercito asburgico fu sconfitto a Wagram e costretto il 12 luglio all’armistizio. Hofer fu a Revò il 6 del mese, per organizzare la difesa territoriale, e il giorno successivo si recò in pellegrinaggio al santuario di San Romedio, accompagnato da 600 Schützen.

L’armistizio impose l’abbandono del Tirolo da parte delle truppe regolari asburgiche, ma i tirolesi - disinformati dei fatti e ingannati dalla politica austriaca - non riposero le armi e continuarono la lotta con le proprie forze.

Una colonna di 20.000 armati franco-bavaresi, raggiunta Innsbruck il 30 luglio, proseguì con l’intenzione di scendere la valle dell’Isarco, ma tra Vipiteno e Bressanone, in quella che ancora oggi a ricordo dell’episodio è chiamata la Sachsenklemme (Stretta dei Sassoni), fu sconfitta dai sollevati tirolesi e costretta a ritirarsi con gravi perdite. Il 13 agosto bavaresi e tirolesi si scontrarono nella terza battaglia del Birgisel, al termine della quale Hofer entrò in Innsbruck, il 15 agosto, e assunse in nome dell’imperatore il governo del Tirolo.

Nel Tirolo meridionale regnava una situazione di enorme confusione: le truppe regolari asburgiche avevano abbandonato la regione e i francesi, con una colonna di 1300 armati alla guida del generale Dazmair, avevano ripreso possesso di Trento ai primi di agosto. Essi tuttavia furono costretti ad abbandonare la città il 21 del mese, incalzati dai sollevati delle valli del Noce e delle Giudicarie, guidati da Bernardino Dal Ponte. Dazmair si scontrò nuovamente con le compagnie del Dalponte a Serravalle, il 29 agosto e, sconfitto, si ritirò nel veronese.

Sul finire di settembre i francesi ripresero l’iniziativa per sedare definitivamente la rivolta, invadendo la regione con un ingente spiegamento di forze, circa 56.000 soldati.

Essi penetrarono il 26 in Vallagarina con una colonna di 4.000 soldati guidati dal feroce generale Peyri che il 28 giunse a Trento. Le stesse truppe, il 2 ottobre, uccisero barbaramente 60 tirolesi presso la chiesa di Loreto a Lavis. Dopo scontri dagli esiti alterni nei dintorni di Trento, i francesi ricevettero un ulteriore rinforzo di truppe, il generale Peyri fu trasferito e sostituito dal generale Vial e la pressione francese fu tale da soffocare gli ultimi focolai di resistenza.

Nella parte superiore del Tirolo, le truppe franco-bavaresi, tornate ad invadere la valle dell’Inn, ripresero Innsbuck e sul Bergisel trovarono gli ultimi tentativi di resistenza degli insorti tirolesi, che furono spenti definitivamente il 29 di ottobre. Alla fine di novembre soltanto la val Pusteria si opponeva ancora all’avanzata francese.

Hofer, distrutto nell’animo, decise di ritirarsi, senza tuttavia abbandonare la sua popolazione. Rifugiatosi con la famiglia presso la Pfandleralm, una malga nelle montagne della Passiria, fu tradito da un certo Raffl e catturato dai francesi il 27 gennaio 1810. Lungo il suo viaggio da prigioniero, transitò da Trento e trascorse ad Ala la sua ultima notte nel Tirolo. Portato a Mantova, venne fucilato il 20 febbraio. La regione tirolese fu smembrata e ripartita tra il Regno d’Italia, quello di Baviera e le provincie Illiriche.


Dalle Compagnie Schützen agli Standschützen dei Casini di Bersaglio

Dopo il periodo napoleonico, i territori dei già secolarizzati principati vescovili di Trento e Bressanone furono riuniti nella contea del Tirolo e ricongiunti all’Austria. Nella regione così riorganizzata emerse anche l’esigenza di migliorare l’apparato difensivo. Le compagnie Schützen che nel corso delle campagne napoleoniche di invasione del Tirolo si erano distinte valorosamente, non vennero più ricostituite.

Il 16 gennaio 1816 venne ufficialmente fondato il corpo dei Tiroler Kaiserjäger, sebbene la sua origine sia antecedente e legata ancora al Settecento e alle riforme di Giuseppe II, con l’istituzione dei Tiroler Scharfschützen, divenuti in seguito Feldjäger e Fennerjäger nel 1813, dal nome del loro comandante, il generale Fenner von Fennberg.

Le autorità militari austriache riconobbero tuttavia che non andava sottovalutata l’importanza, ai fini della difesa del territorio, di disporre di una buona parte della popolazione istruita, attraverso il tiro al bersaglio, all’uso delle armi. Si deliberò pertanto di far rinascere le società di tiro a segno e incentivare la diffusione dei Casini di Bersaglio, cercando di distribuire le strutture uniformemente sul territorio. La sospensione della pratica del bersaglio attuata ancora dai francesi aveva infatti causato una netta riduzione del numero di poligoni. Questi oltretutto, grazie ai progressi raggiunti dalle armi da fuoco, in breve tempo non furono più in grado di rispondere alle misure di sicurezza necessarie.

Furono diverse le disposizioni legislative che si susseguirono nel corso dell’Ottocento, trovando non sempre una loro attuazione, date le ristrettezze finanziarie nelle quali le amministrazioni comunali versarono per tutta la prima metà del secolo.

Fu soltanto con la riforma militare del 1871 - che comportò l’introduzione della leva obbligatoria -  e la successiva legge del 14 maggio 1874 che si osservò un notevole rifiorire della pratica sportiva del tiro al bersaglio. Con la riforma i poligoni di tiro erano necessari anche per l’addestramento dei reparti dei Landesschützen e degli uomini della Leva in massa (Landsturm).

Gli iscritti negli elenchi delle Società di tiratori immatricolati inoltre non erano più soggetti ad obblighi militari della Leva in massa e potevano ricevere l’esenzione dagli addestramenti se dimostravano di essere in esercizio presso un Casino di Bersaglio.

Nel Tirolo italiano, nei decenni precedenti il primo conflitto mondiale, si contarono in attività oppure in fase di costituzione i Casini di Bersaglio di: Ala, Aldeno, Ampezzo (Cortina), Arco, Baselga di Pinè, Baselga di Vezzano, Bedollo, Borghetto, Borgo, Brentonico, Bresimo, Campitello, Carbonari, Casotto, Castel Tesino, Cavalese, Cavareno, Cavedine, Cembra, Centa, Cimone, Civezzano, Cles, Colle Santa Lucia, Condino, Coredo, Faedo, Fai, Fassa (Pozza), Flavon, Folgaria, Fondo, Forno, Grigno, Ischia, Lasino, Lavarone, Lavis, Levico-Caldonazzo, Livinallongo (Buchenstein), Lizzana-Rovereto, Lona-Lases, Luserna, Malé, Mezzana, Mezzolombardo, Moena, Molina di Castello, Mori, Nomi, Nosellari-Carbonare, Ossana-Cusiano, Padergnone, Panchià, Pedemonte, Pergine, Pietramurata, Pieve di Ledro, Pieve Tesino, Pinzolo, Predazzo, Primiero, Rabbi, Riva, Romeno, Roncone, Roverè della Luna, Salobbi, San Lorenzo-Dorsino, Sardagna, Segonzano, Sover, Spiazzo Rendena, Spormaggiore, Stenico, Storo, Strigno, Susà, Taio, Tassullo, Terragnolo, Tesero, Tezze, Tiarno di Sotto, Tione, Torcegno-Ronchi, Trambileno, Trento, Turano, Vallarsa, Vermiglio, Vervò, Vezzano, Vigo d’Anaunia, Vigolo Vattaro, Ziano. Nel Tirolo Italiano erano incluse inoltre le comunità di madrelingua tedesca di Altrei, Laurein, Proveis, Truden e Unser Frau im Walde, tutte dotate di un poligono e di una società di tiratori immatricolati.

Come avviene spesso nelle associazioni di volontariato, l’attività di queste società di tiratori non era costante nel tempo. Per la loro costituzione occorrevano almeno 20 individui dello stesso luogo e di località limitrofe. L’individuo desideroso di farsi socio di un i.r. Casino di Bersaglio doveva aver compiuto almeno 16 anni. Com’era volontario l’ingresso, lo era anche l’uscita dalla società. Il socio era tenuto a osservare le prescrizioni del regolamento per i Casini di Bersaglio, a prendere parte ad almeno tre prove nell’anno solare sparando complessivamente almeno 30 colpi. Dopo due anni di completa inattività veniva cancellato dall’elenco degli iscritti. Dopo quindici anni consecutivi di appartenenza alla società e di militanza regolare il tiratore, che veniva chiamato “bersagliere veterano” o “Altschütze”, era libero di partecipare o meno ai tiri di bersaglio della propria associazione. Le società di bersaglieri dovevano eleggere un proprio direttivo, le cui cariche erano onorifiche e gratuite. 


Gli Standschützen sul fronte tirolese nella Prima guerra mondiale

Nel maggio 1915, quando si aprì il conflitto con l’Italia, i confini del Tirolo si trovavano sprovvisti di truppe, con le sole guarnigioni dei forti e qualche corpo di Gendarmeria e Guardia di finanza.

L’esercito asburgico si trovava infatti impegnato sul fronte orientale nell’offensiva di Gorlice-Tarnow, scatenata il 30 aprile e ancora in pieno svolgimento.

Per salvare il fronte tirolese non restarono che gli Standschützen, ovvero tutti gli immatricolati presso i Casini di Bersaglio e non mobilitati nelle precedenti chiamate per l’esercito regolare: ragazzi dai 15 ai 18 anni e anziani sopra i 50. All’appello dell’imperatore Francesco Giuseppe risposero in migliaia. Essi partirono portandosi da casa un paio di scarpe robuste, biancheria e vestiti di lana, il mantello per l’inverno, guanti di lana, una coperta pesante, posate e gamella. L’uniforme degli Standschützen consisteva in calzoni lunghi e ghette, o alla zuava con calzettoni di lana o mollettiere. Sul risvolto del bavero della giacca era fissata l’aquila tirolese.

Nel Tirolo italiano si contarono 45 unità Standschützen, suddivise tra battaglioni, reparti, compagnie e formazioni, per un totale di 6.331 uomini, come stimati da monsignor Lorenzo Dalponte nel suo volume “I bersaglieri tirolesi nel Trentino 1915 – 1918” (1994).

Ai circa 35.000 soldati austro-ungarici mobilitati per il fronte tirolese, vennero affiancati otto battaglioni dell’Alpenkorps germanico, comandati dal generale Konrad Krafft von Dellmensingen, che per gli Standschützen tirolesi ebbe sempre parole d’elogio.

In netta inferiorità numerica rispetto alle forze dislocate dall’esercito italiano, gli Standschützen compirono un vero miracolo, tenendo il fronte fino all’autunno 1915, quando finalmente poterono essere richiamati dalla Galizia alcuni battaglioni dell’esercito regolare. Spostandosi molto sul territorio, gli Standschützen riuscirono ad ingannare gli osservatori dell’esercito italiano, il quale, nelle prime fasi del conflitto, mantenne lungo i confini del Tirolo un atteggiamento di estrema prudenza.

I primi mesi di guerra furono durissimi per questi uomini, le postazioni in quota mancavano di ricoveri e di rifornimenti, alcune teleferiche non erano state ancora costruite, la linea di difesa era tutt’altro che ultimata. Non mancarono in questa prima fase del conflitto gli scontri con il nemico, più numeroso ed organizzato: ad Ala, furono le locali compagnie di Standschützen e la Gendarmeria ad opporsi, il 27 maggio, all’avanzata dell’esercito italiano bloccando per un’intera giornata forze assai superiori.

Gli Standschützen di madrelingua italiana vennero collocati nei settori dai quali provenivano perché essi, esperti dei luoghi, risultavano di importanza fondamentale per gli altri reparti che dovevano difendere il fronte, i quali invece non possedevano una gran conoscenza del territorio.

Con l’evolvere del conflitto il numero degli Standschützen andò sempre più assottigliandosi; i giovani, raggiunta l’età per l’arruolamento nell’esercito regolare, venivano spesso inquadrati nelle altre formazioni militari. Parte degli anziani venivano invece assegnati a lavori meno pesanti, nelle retrovie oppure congedati, perché troppo vecchi o perché stremati dagli stenti della vita al fronte. Altri ancora, oltre 1.300, caddero nelle azioni di guerra.

In alcuni casi, battaglioni che nel 1915 contavano circa 400 uomini, con l’evolvere del conflitto si ridussero così tanto nell’organico da poter costituire al massimo una compagnia, tante furono le perdite e le persone congedate per l’età e gli strapazzi della vita al fronte.

Tuttavia, nel 1917 si contavano ancora 15.600 Standschützen, dei quali 12.700 di madrelingua tedesca, con 833 ufficiali, e 2.900 di madrelingua italiana, con 102 ufficiali.

Tra la primavera e l’estate 1918 vi fu l’ultima riorganizzazione dei battaglioni e delle compagnie di Standschützen, con il raggruppamento di numerose formazioni.

Il battaglione Standschützen Trento, chiamato anche “Standschützen Gruppe IV”, raccoglieva il grosso dei tiratori immatricolati del Tirolo italiano, con le compagnie Riva-Arco, Trento, Vallarsa e Valsugana. La “Feld-Kompanie Trient” aveva accorpato negli anni non solo gli Standschützen del capoluogo, ma anche quelli di Brentonico, delle valli dei Laghi e di Non, di Bedollo e di Civezzano. La “Feld-Kompanie Vallarsa” era nata ancora nell’ottobre 1915 dall’unione delle compagnie Standschützen di Vallarsa, Trambileno, Ala e Borghetto. Infine, i tiratori della “Feld-Kompanie Valsugana”, costituivano ciò che rimaneva delle formazioni Standschützen di Borgo, Pergine, Tesino, Strigno e Segonzano.

Tutti i battaglioni degli Standschützen rimasero al fronte fino all’ultimo giorno di guerra; essi difesero i confini del Tirolo lottando fino alla fine, al pari degli altri corpi dell’esercito austro-ungarico e, nella maggioranza dei casi, subirono anche la successiva prigionia.